Red Hanuman
19-10-2014, 21:40
Simulata in laboratorio la radiazione di Hawking
La radiazione che produrrebbe l'evaporazione dei buchi neri, prevista nel 1974 da Stephen Hawking, è stata riprodotta sperimentalmente in un analogo di un buco nero, realizzato in laboratorio con onde acustiche che si propagano in un gas di atomi di rubidio mantenuti a pochi milionesimi di grado sopra lo zero assoluto (red)
La radiazione di Hawking, uno dei più affascinanti fenomeni fisici previsti dall'incontro delle teorie quantistiche con la teoria generale della relatività di Einstein, è stata osservata per la prima volta da Jeff Steinhauer, ricercatore del Technion—Israel Institute of Technology di Haifa, autore di un articolo su “Nature Physics”, grazie all'analogo di un buco nero realizzato in laboratorio.
I buchi neri sono così definiti perché il loro campo gravitazionale è talmente forte da inghiottire materia e radiazione comprese entro un certo raggio, definito orizzonte degli eventi, sfuggendo così a ogni osservazione diretta.
Questo è il modello che emerge dalla teoria della relatività generale ma che Stephen Hawking, in un famoso lavoro del 1974, dimostrò che andava corretto in base alle previsioni della meccanica quantistica. I buchi neri cioè non sarebbero completamente “neri” perché emettono un particolare tipo di radiazione, definita da allora “radiazione di Hawking”. L'energia emessa con la radiazione di Hawking è accompagnata dalla creazione di particelle di energia negativa che cadono all'interno del buco nero. Queste ultime particelle riducono l'energia del buco nero, che quindi dovrebbe scomparire, o "evaporare", come dicono i cosmologi.
Ma come si può rilevare sperimentalmente la radiazione di Hawking? I calcoli danno poche speranze: per buchi neri di massa equivalente a poche masse solari, la radiazione sarebbe eccezionalmente debole, al punto da non poter essere rilevata con gli strumenti usati in astrofisica.
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Illustrazione di un buco nero: la radiazione di Hawking, secondo una previsione del famoso cosmologo, dovrebbe portare all'evaporazione di questi oggetti estremi del cosmo (© Corbis)
Ma c'è un altro modo per verificare sperimentalmente le previsioni di Hawking: riprodurre in laboratorio un analogo di un buco nero elettricamente carico, utilizzando particolari fluidi il cui comportamento è regolato dalle leggi della meccanica quantistica e in cui è il suono, invece che la luce, a non poter sfuggire da un analogo dall'orizzonte degli eventi.
I buchi neri carichi in natura non possono esistere. O almeno così si ritiene sulla base di un semplice ragionamento: se in un dato istante i buchi neri fossero dotati di carica elettrica, si neutralizzerebbero immediatamente attirando cariche di segno opposto dallo spazio circostante. Detto in altri termini, l'universo nel suo complesso è elettricamente neutro e funzionerebbe quindi come una sorta di immensa “messa a terra”, scaricando i buchi neri carichi.
Da un punto di vista teorico, tuttavia, i buchi neri sono soluzioni di alcune equazioni elaborate da Albert Einstein, che definiscono la forma dello spazio-tempo in funzione di materia, energia e pressione. E una particolare soluzione di queste equazioni, denominata soluzione di Reissner-Nordström, prevede appunto che il buco nero possa essere dotato, oltre che di una massa, anche di una carica elettrica. Quindi i buchi neri carichi, in termini teorici, esistono. E ciascuno ha una seconda superficie limite interna, denominata orizzonte di Cauchy, molto più vicina al suo centro.
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Stephen Hawking, in un'immagine di alcuni anni fa (© Michael S. Yamashita/Corbis)
In un pionieristico lavoro del 1999 Steven Corley allora dell'Università di Alberta, in Canada, e Ted Jacobson, dell'Università del Maryland a College Park dimostrarono per via teorica una peculiarità dei buchi neri carichi: le particelle di energia negativa che procedono verso il centro dell'oggetto celeste dovrebbero rimbalzare sull'orizzonte di Cauchy, ritornando verso l'orizzonte degli eventi, stimolando così l'emissione di ulteriore radiazione di Hawking.
Questo processo di emissione stimolata ricorda molto il processo che avviene nella cavità risonante di un laser, ed è per questo che il processo scoperto da Corley e Jacobson è stato battezzato laser di buco nero (black hole laser).
Sfruttando questo fenomeno, Steinhauer, che da molti anni lavora a questo problema, è riuscito a produrre una notevole amplificazione della radiazione di Hawking nel suono che si propaga in un gas di atomi di rubidio mantenuti alla temperatura di pochi milionesimi di grado sopra lo zero assoluto. In queste condizioni, il campione rappresenta un condensato di Bose-Einstein, cioè un insieme di molti atomi che si comporta complessivamente come un tutt'uno, secondo le leggi della meccanica quantistica.
Proprio l'amplificazione ottenuta ha permesso la rivelazione della radiazione di Hawking, la prima conferma sperimentale di laboratorio in un analogo di buco nero.
Articolo originale QUI (http://www.lescienze.it/news/2014/10/13/news/radiazione_hawking_evaporazione_buco_nero_laborato rio-2327570/?ref=nl-Le-Scienze_17-10-2014).
La radiazione che produrrebbe l'evaporazione dei buchi neri, prevista nel 1974 da Stephen Hawking, è stata riprodotta sperimentalmente in un analogo di un buco nero, realizzato in laboratorio con onde acustiche che si propagano in un gas di atomi di rubidio mantenuti a pochi milionesimi di grado sopra lo zero assoluto (red)
La radiazione di Hawking, uno dei più affascinanti fenomeni fisici previsti dall'incontro delle teorie quantistiche con la teoria generale della relatività di Einstein, è stata osservata per la prima volta da Jeff Steinhauer, ricercatore del Technion—Israel Institute of Technology di Haifa, autore di un articolo su “Nature Physics”, grazie all'analogo di un buco nero realizzato in laboratorio.
I buchi neri sono così definiti perché il loro campo gravitazionale è talmente forte da inghiottire materia e radiazione comprese entro un certo raggio, definito orizzonte degli eventi, sfuggendo così a ogni osservazione diretta.
Questo è il modello che emerge dalla teoria della relatività generale ma che Stephen Hawking, in un famoso lavoro del 1974, dimostrò che andava corretto in base alle previsioni della meccanica quantistica. I buchi neri cioè non sarebbero completamente “neri” perché emettono un particolare tipo di radiazione, definita da allora “radiazione di Hawking”. L'energia emessa con la radiazione di Hawking è accompagnata dalla creazione di particelle di energia negativa che cadono all'interno del buco nero. Queste ultime particelle riducono l'energia del buco nero, che quindi dovrebbe scomparire, o "evaporare", come dicono i cosmologi.
Ma come si può rilevare sperimentalmente la radiazione di Hawking? I calcoli danno poche speranze: per buchi neri di massa equivalente a poche masse solari, la radiazione sarebbe eccezionalmente debole, al punto da non poter essere rilevata con gli strumenti usati in astrofisica.
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Illustrazione di un buco nero: la radiazione di Hawking, secondo una previsione del famoso cosmologo, dovrebbe portare all'evaporazione di questi oggetti estremi del cosmo (© Corbis)
Ma c'è un altro modo per verificare sperimentalmente le previsioni di Hawking: riprodurre in laboratorio un analogo di un buco nero elettricamente carico, utilizzando particolari fluidi il cui comportamento è regolato dalle leggi della meccanica quantistica e in cui è il suono, invece che la luce, a non poter sfuggire da un analogo dall'orizzonte degli eventi.
I buchi neri carichi in natura non possono esistere. O almeno così si ritiene sulla base di un semplice ragionamento: se in un dato istante i buchi neri fossero dotati di carica elettrica, si neutralizzerebbero immediatamente attirando cariche di segno opposto dallo spazio circostante. Detto in altri termini, l'universo nel suo complesso è elettricamente neutro e funzionerebbe quindi come una sorta di immensa “messa a terra”, scaricando i buchi neri carichi.
Da un punto di vista teorico, tuttavia, i buchi neri sono soluzioni di alcune equazioni elaborate da Albert Einstein, che definiscono la forma dello spazio-tempo in funzione di materia, energia e pressione. E una particolare soluzione di queste equazioni, denominata soluzione di Reissner-Nordström, prevede appunto che il buco nero possa essere dotato, oltre che di una massa, anche di una carica elettrica. Quindi i buchi neri carichi, in termini teorici, esistono. E ciascuno ha una seconda superficie limite interna, denominata orizzonte di Cauchy, molto più vicina al suo centro.
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Stephen Hawking, in un'immagine di alcuni anni fa (© Michael S. Yamashita/Corbis)
In un pionieristico lavoro del 1999 Steven Corley allora dell'Università di Alberta, in Canada, e Ted Jacobson, dell'Università del Maryland a College Park dimostrarono per via teorica una peculiarità dei buchi neri carichi: le particelle di energia negativa che procedono verso il centro dell'oggetto celeste dovrebbero rimbalzare sull'orizzonte di Cauchy, ritornando verso l'orizzonte degli eventi, stimolando così l'emissione di ulteriore radiazione di Hawking.
Questo processo di emissione stimolata ricorda molto il processo che avviene nella cavità risonante di un laser, ed è per questo che il processo scoperto da Corley e Jacobson è stato battezzato laser di buco nero (black hole laser).
Sfruttando questo fenomeno, Steinhauer, che da molti anni lavora a questo problema, è riuscito a produrre una notevole amplificazione della radiazione di Hawking nel suono che si propaga in un gas di atomi di rubidio mantenuti alla temperatura di pochi milionesimi di grado sopra lo zero assoluto. In queste condizioni, il campione rappresenta un condensato di Bose-Einstein, cioè un insieme di molti atomi che si comporta complessivamente come un tutt'uno, secondo le leggi della meccanica quantistica.
Proprio l'amplificazione ottenuta ha permesso la rivelazione della radiazione di Hawking, la prima conferma sperimentale di laboratorio in un analogo di buco nero.
Articolo originale QUI (http://www.lescienze.it/news/2014/10/13/news/radiazione_hawking_evaporazione_buco_nero_laborato rio-2327570/?ref=nl-Le-Scienze_17-10-2014).