Red Hanuman
13-08-2014, 23:27
“Smascherate” le anomalie del fondo cosmico
Sottoposte a un nuovo metodo di analisi, alcune stranezze presenti nelle mappe del fondo a microonde di Planck e WMAP sembrano sparire, dando vita a un’immagine del Big Bang più in linea con la teoria. Media INAF ha intervistato la prima autrice dello studio, Anaïs Rassat
di Marco Malaspina
8024
L’universo “quasi” perfetto di Planck. Crediti: ESA and the Planck Collaboration
Il 21 marzo del 2013, quando venne presentata in pubblico, la mappa dell’universo bambino realizzata da Planck fece il giro del mondo, guadagnandosi persino la prima pagina del New York Times. Due gli aspetti che attirarono fin da subito l’interesse di astronomi e fisici. Anzitutto, era – ed è tutt’ora – la mappa a tutto cielo della radiazione di fondo cosmico a microonde più accurata che sia mai stata realizzata. Ma a incuriosire furono soprattutto alcune tessere fuori posto – anomalie, le chiamano i cosmologi. Si parlò infatti di un universo quasi perfetto, dove il ‘quasi’ si riferiva a caratteristiche inattese, tali da rendere il quadro d’insieme un po’ diverso da quanto la teoria prevede. Un articolo pubblicato oggi su JCAP, il Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, suggerisce ora che alcune di quelle imperfezioni potrebbero in realtà essere legate ai metodi di analisi dati utilizzati. Adottando nuovi approcci, queste si attenuerebbero, restituendo dunque un universo con meno sorprese, più aderente a quello teorico.
Ma cosa sono queste anomalie? Volendo semplificare al massimo, sono caratteristiche che rendono la mappa del fondo cosmico – ovvero la prima fotografia possibile dell’universo bambino, quella risalente a 380mila anni dopo il Big Bang – meno uniforme del previsto. Uno degli assunti fondamentali della cosmologia, il cosiddetto principio cosmologico, vuole infatti che l’universo, considerato su scala adeguatamente ampia (ignorando dunque “dettagli irrilevanti” per i cosmologi, quali possono essere pianeti, stelle e galassie), sia omogeneo e isotropo.
Ebbene, una prima anomalia che è presto balzata agli occhi nelle mappe ricostruite grazie ai dati di WMAP e Planck ha proprio a che fare con il criterio dell’omogeneità: il Cold Spot, un’enorme macchia leggermente più fredda – poche decine di microkelvin – del resto del cosmo. Ciò che infrange il principio cosmologico, si badi bene, non è la temperatura di questa porzione di cielo, bensì il fatto che la sua differenza rispetto alle regioni circostanti si estenda al punto da farla balzare agli occhi degli osservatori, rendendola, appunto, una zona caratteristica. In un universo che di luoghi “caratteristici” non dovrebbe proprio averne. Un’altra anomalia, dal nome altrettanto – se non ancor più – suggestivo è quella battezzata Asse del Male (The Axis of Evil). Si tratta d’un apparente allineamento fra due multipoli che non ha ragione d’essere, violando l’altro requisito del principio cosmologico: quello dell’isotropia, dunque dell’indipendenza dalla direzione in cui si osserva.
Come queste due, di anomalie nell’universo a larga scala se ne conoscono altre – l’articolo uscito su JCAP ne prende in considerazione in tutto sei – e per la maggior parte non si tratta di novità. «È da molto tempo che si conoscono e si studiano», dice infatti a Media INAF la prima autrice dell’articolo, Anaïs Rassat, della Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna (EPFL), in Svizzera, «da prima che venissero diffusi i dati di Planck. La cosa interessante è proprio stata ritrovare queste anomalie sia nei dati di WMAP sia in quelli di Planck. Ma come rendere conto della loro presenza nella radiazione cosmica di fondo? Una soluzione possibile è ammettere la necessità di una nuova fisica, di un cambiamento del nostro modello cosmologico, per poter spiegare quello che stiamo osservando. Ma prima di arrivare a una decisione così affascinante dobbiamo considerare altre possibili cause. Per esempio, potremmo avere qualche problema nei dati raccolti da WMAP, anche se Planck sembra suggerire che non sia questo il caso. Oppure, queste anomalie potrebbero in realtà anche essere il risultato di fenomeni molto più locali, dunque emissioni della Via Lattea. O ancora potrebbero essere introdotte dalla maschera con la quale siamo costretti a coprire parte della nostra galassia per poter effettuare le analisi».
Ed è proprio su queste maschere, queste mappe binarie – formate da regioni bianche o nere, zeri e uni – che indicano quali dati considerare validi e quali invece scartare, che Rassat e colleghi hanno puntato il dito. Non è che si sia esagerato, si sono chiesti, con il mascheramento? E non è che sacrificando troppi dati, in particolare quelli relativi alla regione del piano galattico (notoriamente i più spuri), si sia finito per introdurre un effetto di intensità paragonabile a quello che si voleva rimuovere? Per rispondere, i cosmologi del team di Rassat hanno dunque tentato analisi senza mascherare i dati. Risultato? «Eseguendo l’analisi delle mappe di Planck a tutto cielo, e tenendo dunque conto anche dei dati relativi alla regione del piano galattico», spiega Rassat, «notiamo che il Cold Spot – pur rimanendo visibile – dal punto di vista statistico non rappresenta più un problema». In altre parole, l’anomalia scomparirebbe.
Ma non è rischioso tenere conto di dati provenienti da zone ampiamente contaminate, come sono appunto quelle del piano galattico, da sorgenti di foreground – dunque stelle, nubi di polvere e altre fonti locali di emissione (“componenti”, le chiamano gli scienziati) che con la radiazione di fondo cosmico nulla hanno a che fare? «Raccogliamo i dati su diverse frequenze», osserva Rassat, «rispetto alle quali le diverse componenti, i diversi contributi, hanno modi di comportarsi molto differenti. E il nuovo metodo statistico da noi adottato ci aiuta a separare tutte queste componenti. Ma il punto è: possiamo fidarci? Per rispondere, eseguiamo un’ampia serie di analisi e simulazioni, così da poter verificare che non rimangano componenti residue. Ed è esattamente ciò che abbiamo fatto per il nostro articolo. In particolare, abbiamo controllato a fondo se fossero presenti componenti residue in grado di avere effetti sulle anomalie da noi studiate, e abbiamo concluso che possiamo usare i dati dell’intero cielo».
Prendendo in considerazione tutti i dati, dunque, per poi sottoporli a un nuovo metodo di separazione delle componenti, e adottando altri accorgimenti quali per esempio considerare tutti i possibili effetti sulle misure del moto della Via Lattea, alcune apparenti anomalie – concludono Rassat e i coautori del CEA-CNRS di Parigi – potrebbero rientrare nella norma. Quanto meno fino al prossimo studio.
Per saperne di più:
Ascolta l’intera intervista (in inglese) ad Anaïs Rassat (http://gallery.media.inaf.it/main.php/v/voci/interviste/20140804-anais-rassat.mp3.html)
Leggi l’articolo “Planck CMB Anomalies: Astrophysical and Cosmological Foregrounds and the Curse of Masking (http://iopscience.iop.org/1475-7516/2014/08/006)” di A. Rassat, J.-L. Starck, P. Paykari, F. Sureau e J. Bobin
Articolo originale QUI (http://www.media.inaf.it/2014/08/04/unmasking-cmb-anomalies/).
Sottoposte a un nuovo metodo di analisi, alcune stranezze presenti nelle mappe del fondo a microonde di Planck e WMAP sembrano sparire, dando vita a un’immagine del Big Bang più in linea con la teoria. Media INAF ha intervistato la prima autrice dello studio, Anaïs Rassat
di Marco Malaspina
8024
L’universo “quasi” perfetto di Planck. Crediti: ESA and the Planck Collaboration
Il 21 marzo del 2013, quando venne presentata in pubblico, la mappa dell’universo bambino realizzata da Planck fece il giro del mondo, guadagnandosi persino la prima pagina del New York Times. Due gli aspetti che attirarono fin da subito l’interesse di astronomi e fisici. Anzitutto, era – ed è tutt’ora – la mappa a tutto cielo della radiazione di fondo cosmico a microonde più accurata che sia mai stata realizzata. Ma a incuriosire furono soprattutto alcune tessere fuori posto – anomalie, le chiamano i cosmologi. Si parlò infatti di un universo quasi perfetto, dove il ‘quasi’ si riferiva a caratteristiche inattese, tali da rendere il quadro d’insieme un po’ diverso da quanto la teoria prevede. Un articolo pubblicato oggi su JCAP, il Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, suggerisce ora che alcune di quelle imperfezioni potrebbero in realtà essere legate ai metodi di analisi dati utilizzati. Adottando nuovi approcci, queste si attenuerebbero, restituendo dunque un universo con meno sorprese, più aderente a quello teorico.
Ma cosa sono queste anomalie? Volendo semplificare al massimo, sono caratteristiche che rendono la mappa del fondo cosmico – ovvero la prima fotografia possibile dell’universo bambino, quella risalente a 380mila anni dopo il Big Bang – meno uniforme del previsto. Uno degli assunti fondamentali della cosmologia, il cosiddetto principio cosmologico, vuole infatti che l’universo, considerato su scala adeguatamente ampia (ignorando dunque “dettagli irrilevanti” per i cosmologi, quali possono essere pianeti, stelle e galassie), sia omogeneo e isotropo.
Ebbene, una prima anomalia che è presto balzata agli occhi nelle mappe ricostruite grazie ai dati di WMAP e Planck ha proprio a che fare con il criterio dell’omogeneità: il Cold Spot, un’enorme macchia leggermente più fredda – poche decine di microkelvin – del resto del cosmo. Ciò che infrange il principio cosmologico, si badi bene, non è la temperatura di questa porzione di cielo, bensì il fatto che la sua differenza rispetto alle regioni circostanti si estenda al punto da farla balzare agli occhi degli osservatori, rendendola, appunto, una zona caratteristica. In un universo che di luoghi “caratteristici” non dovrebbe proprio averne. Un’altra anomalia, dal nome altrettanto – se non ancor più – suggestivo è quella battezzata Asse del Male (The Axis of Evil). Si tratta d’un apparente allineamento fra due multipoli che non ha ragione d’essere, violando l’altro requisito del principio cosmologico: quello dell’isotropia, dunque dell’indipendenza dalla direzione in cui si osserva.
Come queste due, di anomalie nell’universo a larga scala se ne conoscono altre – l’articolo uscito su JCAP ne prende in considerazione in tutto sei – e per la maggior parte non si tratta di novità. «È da molto tempo che si conoscono e si studiano», dice infatti a Media INAF la prima autrice dell’articolo, Anaïs Rassat, della Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna (EPFL), in Svizzera, «da prima che venissero diffusi i dati di Planck. La cosa interessante è proprio stata ritrovare queste anomalie sia nei dati di WMAP sia in quelli di Planck. Ma come rendere conto della loro presenza nella radiazione cosmica di fondo? Una soluzione possibile è ammettere la necessità di una nuova fisica, di un cambiamento del nostro modello cosmologico, per poter spiegare quello che stiamo osservando. Ma prima di arrivare a una decisione così affascinante dobbiamo considerare altre possibili cause. Per esempio, potremmo avere qualche problema nei dati raccolti da WMAP, anche se Planck sembra suggerire che non sia questo il caso. Oppure, queste anomalie potrebbero in realtà anche essere il risultato di fenomeni molto più locali, dunque emissioni della Via Lattea. O ancora potrebbero essere introdotte dalla maschera con la quale siamo costretti a coprire parte della nostra galassia per poter effettuare le analisi».
Ed è proprio su queste maschere, queste mappe binarie – formate da regioni bianche o nere, zeri e uni – che indicano quali dati considerare validi e quali invece scartare, che Rassat e colleghi hanno puntato il dito. Non è che si sia esagerato, si sono chiesti, con il mascheramento? E non è che sacrificando troppi dati, in particolare quelli relativi alla regione del piano galattico (notoriamente i più spuri), si sia finito per introdurre un effetto di intensità paragonabile a quello che si voleva rimuovere? Per rispondere, i cosmologi del team di Rassat hanno dunque tentato analisi senza mascherare i dati. Risultato? «Eseguendo l’analisi delle mappe di Planck a tutto cielo, e tenendo dunque conto anche dei dati relativi alla regione del piano galattico», spiega Rassat, «notiamo che il Cold Spot – pur rimanendo visibile – dal punto di vista statistico non rappresenta più un problema». In altre parole, l’anomalia scomparirebbe.
Ma non è rischioso tenere conto di dati provenienti da zone ampiamente contaminate, come sono appunto quelle del piano galattico, da sorgenti di foreground – dunque stelle, nubi di polvere e altre fonti locali di emissione (“componenti”, le chiamano gli scienziati) che con la radiazione di fondo cosmico nulla hanno a che fare? «Raccogliamo i dati su diverse frequenze», osserva Rassat, «rispetto alle quali le diverse componenti, i diversi contributi, hanno modi di comportarsi molto differenti. E il nuovo metodo statistico da noi adottato ci aiuta a separare tutte queste componenti. Ma il punto è: possiamo fidarci? Per rispondere, eseguiamo un’ampia serie di analisi e simulazioni, così da poter verificare che non rimangano componenti residue. Ed è esattamente ciò che abbiamo fatto per il nostro articolo. In particolare, abbiamo controllato a fondo se fossero presenti componenti residue in grado di avere effetti sulle anomalie da noi studiate, e abbiamo concluso che possiamo usare i dati dell’intero cielo».
Prendendo in considerazione tutti i dati, dunque, per poi sottoporli a un nuovo metodo di separazione delle componenti, e adottando altri accorgimenti quali per esempio considerare tutti i possibili effetti sulle misure del moto della Via Lattea, alcune apparenti anomalie – concludono Rassat e i coautori del CEA-CNRS di Parigi – potrebbero rientrare nella norma. Quanto meno fino al prossimo studio.
Per saperne di più:
Ascolta l’intera intervista (in inglese) ad Anaïs Rassat (http://gallery.media.inaf.it/main.php/v/voci/interviste/20140804-anais-rassat.mp3.html)
Leggi l’articolo “Planck CMB Anomalies: Astrophysical and Cosmological Foregrounds and the Curse of Masking (http://iopscience.iop.org/1475-7516/2014/08/006)” di A. Rassat, J.-L. Starck, P. Paykari, F. Sureau e J. Bobin
Articolo originale QUI (http://www.media.inaf.it/2014/08/04/unmasking-cmb-anomalies/).