Esperimenti quantistici, tra rigore e virtuosismi

Ultimo arrivato nell’effervescente panorama dei test sperimentali di violazione della disuguaglianza di Bell, questo messo a punto sfruttando il colore dei fotoni di lontane stelle come generatore di scelte casuali ha un indubbio fascino, ma sul suo senso qualche perplessità pare legittima


Ancora fisica quantistica. Ancora l’entanglement con i suoi bizzarri corollari – quelle azioni spettrali (spooky actions) a distanza così indigeste al senso comune e non solo, tanto che nemmeno Einstein riusciva a farsene una ragione. E ancora test per metterle alla prova sperimentalmente, queste spooky actions. Tappando tutte le possibili “scappatoie” – loopholes, le chiamano i fisici – che l’assetto sperimentale potrebbe di volta in volta lasciare incustodite. Questa volta, a rendere conto dei risultati dell’ennesimo test, è un team di cervelli di calibro tale – due nomi su tutti: Alan Guth e Anton Zeilinger – da mettere soggezione solo a scorrere l’elenco degli autori. Così com’è al di sopra di ogni sospetto la rivista sulla quale lo studio è stato pubblicato, la blasonatissima Physical Review Letters. Eppure.

Crediti: Flickr / Matthias Weinberger
Crediti: Flickr / Matthias Weinberger

Eppure qualche perplessità sorge, a leggere nelle news, nei comunicati stampa e nelle agenzie di “libero arbitrio” (Forbes), “libertà di scelta” (MIT) o di “grandi fratelli cosmici” (Ansa). Perplessità che non si diradano provando ad addentrarsi, con tutte le difficoltà e l’incertezza del profano, nella lettura dello stesso paper scientifico, anzi. Perplessità che hanno a che fare non con il rigore dell’esperimento, inappuntabile, bensì con la sua significatività: davvero ha senso, continuare a fare test del genere?

Facciamo un passo indietro, anzi due. E andiamo al padre di tutti i test pensati per mettere alla prova, in modo sperimentale, quella sfida al principio di località rappresentata dalle correlazioni quantistiche: il teorema di Bell. Un teorema, del quale già ci siamo occupati anche su Media INAF, che consente di mettere a confronto, in modo elegante, le previsioni delle teorie classiche con quelle della teoria quantistica. Più esattamente, consente di verificare se fenomeni quantistici come quello di entanglement non possano in realtà essere spiegati dalla presenza di variabili nascoste.

Messo alla prova sperimentalmente (come? questo video offre un esempio molto chiaro), a colpi di misure casuali su proprietà come lo spin di coppie di fotoni o altre particelle in entanglement, i suoi esiti hanno sempre dato ragione alla teoria quantistica: non c’è trucco non c’è inganno, dicono i risultati, le correlazioni quantistiche “funzionano” senza variabili nascoste. Non del tutto soddisfatti, però, i fisici vogliono sincerarsi che questi esperimenti siano condotti con il necessario rigore. Senza “scappatoie”, appunto. E mettono quindi a punto esperimenti sempre più raffinati.

Ebbene, uno dei possibili “buchi” negli esperimenti per verificare il teorema di Bell riguarda le scelte casuali per decidere, di volta in volta, quale tipo di misura “l’osservatore” condurrà sulle particelle in entanglement. Chi ci dà la certezza che siano veramente casuali, e non invece preordinati in modo tale da falsare l’esito del test? O in qualche modo soggetti a un’influenza sconosciuta che, data la relativa prossimità spaziotemporale fra il generatore di numeri casuali e l’esperimento, abbia un impatto sia sul setting – determinato dalla scelta dello “sperimentatore”, dunque dettata dai numeri casuali stessi – che sull’esito delle misure?

Uno stratagemma per tentare d’aggirare l’ostacolo – se mai di ostacolo si tratta – è stato messo in campo qualche mese fa, il 30 novembre 2016, coinvolgendo 100 mila volontari disposti a fare, picchiando a caso sulle proprie tastiere, da “generatori umani” di numeri casuali. Il senso dell’esperimento, evidente sin dall’architettura del sito dell’iniziativa (una sorta di gioco sparatutto online, ricco di risorse divulgative), era non tanto mettere alla prova il teorema di Bell quanto farlo coinvolgendo, al tempo stesso, un pubblico il più ampio possibile, così da avvicinare persone d’ogni tipo alla meccanica quantistica. Il senso e il successo di The Big Bell Test – questo il nome del progetto, al quale abbiamo anche dedicato un servizio video – s’è dunque misurato non tanto nella conferma quantitativa (che pure c’è stata, ovvio) della violazione delle disuguaglianze di Bell quanto nel numero di partecipanti.

Quello descritto nel paper uscito questa settimana su Physical Review Letter è un esperimento analogo. Con una differenza: al posto dei 100 mila volontari del Big Bell Test, il team guidato da Johannes Handsteiner dell’Institute for Quantum Optics and Quantum Information di Vienna ha reclutato, come generatori di numeri casuali, i fotoni provenienti da un insieme di stelle situate ad almeno 600 anni luce dalla Terra. In particolare, la sequenza casuale di ‘zeri’ e di ‘uni’ era determinata dal “colore” dei fotoni: quelli più “rossi” (dunque a lunghezza d’onda maggiore) d’una lunghezza d’onda di riferimento venivano tradotti in una scelta sperimentale (la direzione in cui misurare la polarizzazione d’un fotone in entanglement), quelli più “blu” nell’altra scelta (una direzione di misura diversa). Il tutto ripetuto per 100 mila coppie in entanglement.

Il senso del test? Essendo determinati da una lunghezza d’onda prodotta almeno 600 anni prima, i numeri casuali che guidano la scelta della misura difficilmente possono risentire di un’influenza sconosciuta che agisca, al tempo stesso, sulle stelle d’origine e sull’esperimento in corso. Gli autori del test arrivano anche a specificare quanto difficilmente: i pochi microsecondi degli esperimenti precedenti rispetto ai 600 anni di questo. «Una differenza di 16 ordini di grandezza», sottolinea uno dei coautori, il fisco e storico della scienza David Kaiser dell’Mit. E sulle cifre niente da dire. Ma sullo spessore scientifico di questi esperimenti, e sull’opportunità d’insistere ancora a lungo su questa strada, elaborando quelli che in fondo paiono non essere altro che stratagemmi sempre più fantasiosi di generazione di numeri casuali, senza più nemmeno il valore aggiunto del coinvolgimento del pubblico, ecco, qualche reazione perplessa va messa in conto.

Per saperne di più:

  • Leggi su Physical Review Letter l’articolo “Cosmic Bell Test: Measurement Settings from Milky Way Stars“, di Johannes Handsteiner, Andrew S. Friedman, Dominik Rauch, Jason Gallicchio, Bo Liu, Hannes Hosp, Johannes Kofler, David Bricher, Matthias Fink, Calvin Leung, Anthony Mark, Hien T. Nguyen, Isabella Sanders, Fabian Steinlechner, Rupert Ursin, Sören Wengerowsky, Alan H. Guth, David I. Kaiser, Thomas Scheidl e Anton Zeilinger

 

Articolo originale QUI.

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Red Hanuman è nato poco tempo prima che l'uomo mettesse piede sulla Luna, e cresciuto a pane e fantascienza. Poteva non sentire il richiamo delle stelle? Chimico per formazione e biologo autodidatta per necessità, ha da sempre desiderato essere un astrofisico per vocazione e diletto, ma non ha potuto coronare il suo sogno. Attualmente, lavora nel settore ambiente. Da pochi anni studia il violino. Perché continua ad usare un nickname? Perché la realtà non può essere richiusa in un nome, e perché πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός : tutto scorre come un fiume. Ma, soprattutto, perché Red Hanuman è chiunque coltiva in sé un desiderio di conoscenza ...

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2 Commenti    |    Aggiungi un Commento

  1. Nomi importanti. niente da dire. La domanda è perché hanno sentito il bisogno di fare questo esperimento. Spero non solo per i finanziamenti. Ma @Red Hanuman hanno paura che la particella capisca, prima dell'esperimento, quale esperimento stanno facendo. Basteranno 600 anni prima? Forse no, visto che il problema è che non sanno come avviene.

  2. Più che altro, hanno paura che l'uomo possa in qualche modo rendere la scelta non casuale. 600 anni di differenza tra la scelta e la misura possono bastare?