Solo una catastrofe può far nascere una grande famiglia

In questo articolo ho cercato di spiegare in modo semplice e approssimato il metodo usato, tanti anni fa, per definire, finalmente in modo oggettivo, le famiglie asteroidali. Spero anche che faccia capire l’estrema importanza di questi raggruppamenti che indicano eventi importantissimi nella storia del Sistema Solare.


Ogni asteroide può essere considerato dinamicamente un pianeta a tutti gli effetti: rivolve attorno al Sole seguendo le leggi di Keplero. Ne segue che la sua posizione nel cielo è definita perfettamente una volta che sia conosciuta la sua orbita. L’orbita non è però qualcosa di veramente fisso. In particolare, non sono fissi i parametri angolari, ossia l’argomento del perielio e la longitudine del nodo. Essi variano continuamente per effetto della precessione. In altre parole, essi assumono tutti i valori tra 0° e 360° nel giro di poche o tante migliaia di anni, a seconda della distanza dal Sole.

Analogamente ha poco senso per lo scopo che ci prefissiamo considerare il tempo di passaggio al perielio. Che un oggetto passi al suo punto più vicino al Sole in una certa data o in un’altra non ha alcun interesse per la sua storia passata: dato che cambia il perielio cambia anche lui. Si può quindi concludere che gli elementi orbitali che caratterizzano completamente le posizioni relative degli asteroidi durante tutta la loro vita (tranne eventuali variazioni non gravitazionali dovute a collisioni reciproche) sono tre: semiasse maggiore, eccentricità e inclinazione.

Per guardare come essi si distribuiscono nello spazio, indipendentemente dal tempo che è passato da quando hanno iniziato la loro esistenza singola, si usano due classici diagrammi molto semplici: eccentricità e inclinazione in funzione del semiasse. Tuttavia, le cose sarebbero troppo facili. Le perturbazioni causate dai pianeti maggiori inducono variazioni più o meno grandi anche su eccentricità e inclinazione. I valori  che si osservano valgono per un certo istante, ma non su scale di tempo paragonabili alla vita dei piccoli pianeti.

Questo tipo di elementi orbitali, che si calcolano anche durante un breve periodo di tempo pari a poche rivoluzioni, vengono chiamati “osculatori”. Danno una certa idea della distribuzione degli oggetti della fascia asteroidale, ma subiscono le variazioni di eccentricità e inclinazione in funzione del tempo. Fortunatamente, queste variazioni possono essere calcolate dato che hanno un andamento periodico. In altre parole, eccentricità e inclinazione oscillano sopra e sotto un valore medio.

La meccanica celeste e i suoi grandi maestri sono stati in grado di ricavare questi valori medi, che portano velocemente a quelli finali che vengono chiamati “propri”. Essi sono valori che possono essere considerati fissi anche su scale di tempo dei miliardi di anni. Il primo passo da fare è quindi trasformare gli elementi osculatori in elementi propri.

A questo punto abbiamo le orbite praticamente indipendenti dal tempo e quindi in grado di rappresentare veramente la distribuzione degli asteroidi nello spazio ipotetico formato dalle tre grandezze: eccentricità, inclinazione e semiasse maggiore. Di quest’ultimo non ho parlato. Ma esso può considerarsi praticamente costante nel tempo. Per poterlo variare non bastano le perturbazioni planetarie, ma solo e soltanto azioni esterne come collisioni o -dinamicamente- condizioni estremamente particolari, come le immissioni all’interno delle risonanze con Giove.

Tuttavia, se un oggetto cade in queste “trappole” dinamiche, nel giro di pochi milioni di anni si trasferisce in zone diverse della fascia e quindi non compare tra quelli da analizzare. Per loro, poi, non ha nemmeno senso parlare di elementi propri.

Vediamo, allora, come si mostrano i diagrammi a-e e a-i per tutti gli asteroidi conosciuti (al posto di i si mette di solito il seno dell’angolo, sen i, tanto è la stessa cosa). Le Fig. 1 e 2 si riferiscono alla popolazione che avevamo nel lontano 1990. Poche migliaia di oggetti a disposizione, ma più che sufficienti per una ricerca di tipo statistico. Risulta evidente, già ad occhio nudo, che vi sono qua e là dei raggruppamenti particolari, troppo densi per essere dovuti al caso. Pensate che qualcuno di questi era già stato localizzato dall’astronomo giapponese Hirayama nel lontanissimo 1918.

fig. 1
Figura 1
fig. 2
Figura 2

Tuttavia, l’occhio è qualcosa di fantastico, ma non è in grado di stabilire in modo oggettivo cosa sia veramente distribuito in modo anomalo. E’ necessario stabilire un procedimento che riesca a dire, senza alcuna soggettività, cosa sia veramente un gruppo fuori dalla media e stabilire i suoi membri.

E qui per anni e anni è cascato l’asino! Si sono provati vari metodi, ma sempre basati, o all’inizio o alla fine, su una valutazione occhiometrica e non squisitamente matematica.

Vediamo allora le cose in modo un po’ diverso. Abbiamo a disposizione uno spazio a tre dimensioni che sono semiasse maggiore a, eccentricità propria e, e inclinazione propria i o sen i. Ogni asteroide assume quindi una particolare posizione in questo spazio virtuale, che è definita completamente da una terna di valori a,e e sin i. In uno spazio a tre dimensioni siamo, però, capaci di calcolare la distanza tra i punti.

Se le dimensioni fossero solo due (piano cartesiano x,y) si avrebbe:

d = (x2 + y2)1/2

Nelle tre dimensioni, in modo analogo:

d = (x2 + y2 + z2)1/2

Possiamo allora porre x = a, y = e, z = sen i e calcolare la distanza tra due orbite asteroidali, che sono proprio definite dai tre elementi orbitali considerati.

Sì, sarebbe un bel passo in avanti, ma che senso avrebbe questa specie di distanza in uno spazio definito da tre elementi orbitali? fisicamente ben poco, dato che il semiasse maggiore a si misura in Unità Astronomiche, e non ha dimensioni e i è un angolo.

E’ necessario, allora, fare un passo in più e capire bene cosa rappresentano orbite di asteroidi molto simili tra loro. Dato che il caso non può certo spiegare raggruppamenti così ben visibili anche ad occhio e che la scoperta di nuovi asteroidi aumenta sempre di più la loro densità, non si può che concludere che la situazione si è venuta a creare attraverso un ben definito fenomeno o dinamico o  fisico. Processi di carattere dinamico possono spazzare via o anche concentrare oggetti, ma non sotto una certa distanza media. Per i gruppi di Hirayama non può funzionare. Deve, perciò, essere di tipo fisico. Non è difficile scoprirlo: le mutue collisioni.

Due asteroidi che si scontrano producono un insieme anche enorme di frammenti che rimangono su orbite molto simili tra loro. Come già detto varie volte, un urto può distruggere un oggetto ma non riesce a cambiare di molto la potentissima energia orbitale. Ne segue che i frammenti di una collisione devono avere orbite quasi identiche e gli elementi “fissi”  rispetto al tempo che li caratterizzano devono essere altrettanto simili. E’ ovvio, quindi, che ogni raggruppamento presente nello spazio dei tre parametri orbitali considerati precedentemente può essere considerato come l’insieme dei frammenti di una singola collisione catastrofica.

Sotto questa ipotesi, verificata attraverso molti studi di evoluzione fisica su cui abbiamo lavorato per anni, è allora possibile fare il seguente ragionamento: “Le differenze tra gli elementi orbitali dei frammenti di una singola collisione dipendono essenzialmente dalla velocità con cui i frammenti sono stati scagliati nello spazio (vero) a seguito dell’urto”. Purtroppo, però, noi abbiamo soltanto differenze di elementi orbitali. Come possiamo legarli alla velocità di espulsione, parametro veramente fisico e legato alla collisione?

Bene, ci aveva già pensato Gauss, o -almeno- ci aveva fornito delle equazioni che legavano le variazioni degli elementi orbitali alle velocità relative tra oggetti che percorrano due orbite relativamente vicine e viceversa.  In altre parole, le equazioni permettono di scrivere le velocità basandosi soltanto sugli elementi orbitali, assumendo che tutto sia nato da un singolo punto, ossia quello dove è avvenuto l’impatto.

Bellissimo, ma c’è ancora un problemino. Per scrivere le equazioni è necessario anche saper i valori dei parametri orbitali angolari all’istante dell’evento catastrofico. Infatti, se un oggetto si rompe vicino al perielio o vicino all’afelio le variazioni dei parametri orbitali cambiano e di conseguenza anche le velocità. In altre parole, una stessa velocità di espulsione causa variazioni orbitali maggiori o minori in punti diversi dell’orbita. Purtroppo l’istante dell’impatto non può dircelo nessuno. Possiamo però accontentarci di un approccio statistico. Al posto degli angoli “veri” al momento dell’impatto, possiamo mettere degli angoli “medi”, ossia angoli che rappresentino la posizione statisticamente più probabile lungo l’orbita. Non inserisco la formula finale, ma si può trovare andando all’articolo originale.

Non si può fare di meglio, ma, visto lo scopo statistico, il risultato non è molto diverso da quello reale. Siamo finalmente riusciti a trovare una metrica speciale nello spazio degli elementi orbitali a,e e sen i che ci permette di stabilire una distanza che non sia un valore privo di senso, ma che sia strettamente legato alla fisica, ossia che rappresenti proprio la velocità di espulsione dei frammenti. In altre parole, un legame fisico tra i tre parametri orbitali.

Questa metrica ci fornisce un metodo del tutto oggettivo per stabilire le distanze tra i membri del gruppo (espresse in m/sec) e poter calcolare quando e quanto un insieme di oggetti sia statisticamente e fisicamente valido.

A questo punto non ci resta che trovare un algoritmo che sia capace di raggruppare tra loro oggetti “apparentemente” vicini, la cui distanza sia definita dalla metrica definita prima. Perché non rifarsi alla natura e agli alberi? Quello scelto è praticamente il sistema che permette di disegnare l’albero genealogico di una grande famiglia storica. Si parte dai figli viventi che si legano ai padri e alle madri che a loro volta si legano ai nonni e alle nonne e via dicendo fino ad arrivare ad … Adamo ed EVA! Nel nostro caso si parte dagli asteroidi più vicini tra loro e poi si costruisce l’albero che li unisce andando a distanze sempre crescenti.

Ed eccoci quindi al diagramma a stalattite che tanto mi piaceva. Si comincia dalla punta della stalattite che indica la coppia di oggetti più vicini tra loro e poi, a mano a mano, si uniscono alla coppia, come un reticolato, altri oggetti con distanze via via più grandi. Crescendo la distanza ammessa, cresce velocemente anche il numero di “parenti” e, se arrivassimo fino a distanze enormi, tutti gli asteroidi si unirebbero tra loro. Bisogna quindi stabilire un limite al grado di parentela.

Senza scendere troppo nei particolari cosa possiamo fare? Beh… immaginiamo che gli asteroidi assumano posizioni del tutto casuali e senza raggruppamenti anomali. Li prendiamo tutti e li mischiamo a caso, con un programma random. Lo facciamo varie volte in modo d’ avere una certa sicurezza. Dopodiché utilizziamo di nuovo il metodo di raggruppamento ad “albero” genealogico. Troveremo la prima coppia che si unisce a una certa distanza,  ma è una coppia fittizia dovuta al caso e non a un’origine comune. La distanza  corrispondente (ossia la velocità relativa, ricordate?) può essere considerata come il livello di accoppiamento “random”. La Fig. 3 mostra, a sinistra, la vera distribuzione in una certa zona della fascia principale; a destra una simulazione “random”.

fig.3
Figura 3

Valutiamo anche quante coppie nascono in funzione della distanza crescente e poi facciamo un po’ di calcoli statistici. Alla fine, possiamo definire un livello abbastanza preciso che ci dica quando  troppi asteroidi iniziano a essere eccessivamente vicini rispetto a una popolazione senza vincoli di parentela. Questo livello lo chiamiamo livello quasi random (dato che abbiamo eseguito alcune correzioni un po’ più sofisticate).

Torniamo, infine alle stalattiti costruite con gli asteroidi veri e vediamo quali di esse superano come profondità il livello casuale. Queste stalattiti definiscono le famiglie asteroidali, ossia quei gruppi che hanno oggetti troppo vicini per essere dovuti al caso. Più le stalattiti sono profonde e più la famiglia è statisticamente valida. La Fig. 4 mostra alcune stalattiti e il livello quasi random che identifica le famiglie più “serie”. In ordinata vi è la distanza (velocità) via via decrescente (verso il basso), in ascissa il numero di oggetti. Ogni stalattite, al livello quasi random, riporta l’oggetto con il numero più piccolo.

fig. 4
Figura 4

Finalmente, il gioco è fatto e non dipende assolutamente dalla soggettività di chi ha svolto il lavoro di raggruppamento. Non per niente, a distanza di 23 anni e con un numero di asteroidi dieci volte più grande, si è potuto tranquillamente proseguire con le stesse stalattiti precedenti. Esse sono cresciute perché si sono scoperti oggetti più piccoli che sono entrati tra i parenti stretti e si sono allungate perché le coppie molto vicine sono decisamente più frequenti e sempre più a contatto.. Sarà anche variato il livello random (abbiamo aumentato il numero di oggetti presenti nello stesso spazio fisico), ma nettamente meno di quanto non siano scese le stalattiti reali.

Ne sono nate anche di nuove, formate essenzialmente da frammenti molto piccoli, magari associati a un asteroide molto grande. Siamo nel caso di una craterizzazione violenta e non di una vera catastrofe planetaria.

Come provare tutto questo procedimento essenzialmente dinamico e statistico a cui volevamo dare un significato fisico? Andare a vedere se i membri di una singola famiglia hanno tutti qualche caratteristica in comune (il taglio degli occhi, il naso a gobba, le orecchie a sventola, e mille altri particolari). WISE ne ha dato la conferma definitiva, anche se molte prove erano già state rese possibili da progetti come IRAS.

Il successo più grande e affascinante? Prendere la famiglia di Vesta, l’unico oggetto classificato di tipo spettroscopico V, a causa delle sue caratteristiche fisico-chimiche basaltiche, e andare a vedere di che tipo sono i suoi frammenti stabiliti in base alla classificazione precedente. Sperare ardentemente che la maggior parte di loro risulti di tipo V, mai trovato altrove nella fascia asteroidale.

E così è stato! A questo punto è stato facilissimo legare i frammenti asteroidali a Vesta, andare a recuperare i NEA di tipo V (frammenti che sono finiti nelle risonanze con Giove e sono terminati tra i pianeti interni) e poi recuperare meteoriti anch’esse di tipo V. Quel pezzo di roccia che stringevamo tra le dita era sicuramente stato espulso molti milioni di anni prima da Vesta, quando si era formato il grande cratere che aveva creato la famiglia. Che emozione, ragazzi! Un pezzo di asteroide tra le dita, sapendo esattamente il nome del “papà” che lo aveva mandato fino a noi attraverso un viaggio lungo e travagliato. Guardare Vesta al telescopio è diventato, da quel momento in poi, come salutare un amico fraterno.

La famiglia di Vesta trovata nel 1990 (su 4100 asteroidi totali) aveva solo 7 membri (rischiavamo grosso, eh?), quella trovata nel 1995 (su circa 12000 oggetti) ne aveva 231. Oggi, il nuovo lavoro dei miei… nipotini arriva a più di 1331 membri (su 130 000 asteroidi considerati). La Fig. 5 mostra la piccola, ma significativa, famiglia del 1990 con i suoi 7 membri, tutti, però, di tipo V!

fig. 5
Figura 5

Non voglio andare oltre, ma sapeste quante cose si possono fare con un gruppo che ha sicuramente un’origine comune. Cercare di ricostruire la distribuzione dei frammenti al momento dell’impatto, calcolare addirittura il punto dell’orbita in cui è avvenuto l’urto, stabilire, forse, anche l’epoca della distruzione. Ma anche calcolare quanti frammenti sono stati inviati dentro qualche risonanza vicina e sono diventati NEA, ricostruire i processi di frammentazione su oggetti di vari chilometri, determinare le proprietà rotazionali dei vari frammenti e del più grande in parte accumulatosi nuovamente, studiare il trasferimento di momento angolare dovuto all’impatto, ecc., ecc.

Insomma, viva gli asteroidi, fossili viventi che ci raccontano il passato del nostro Sistema Solare!

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6 Commenti    |    Aggiungi un Commento

  1. bellissimo articolo!
    spiegato con la tua solita classe e professionalità, rendendocelo al tempo stesso semplice ed intuitivo.
    voglio stamparmi il lavoro originale e tradurlo, mi ci volessero 3 anni per capirci qualcosa ma voglio farlo!!!!

  2. Fantastico Enzo!! un lavoro con i fiocchi!! se 23 anni fa ti sentivi il papà, ora ti senti il "nonno"? E' una dolce sensazione vedere la famiglia crescere, te ne parlo a ragion veduta... Chissà quanti regali devi fare a Natale..

  3. Caro Enzo, come sempre un'ottimo articolo ed uno stupendo resoconto della tua esperienza personale.
    Mi chiedevo: non si potrebbe utilizzare il tuo metodo, con le opportune correzioni, per riuscire a raggruppare le stelle nate nello stesso ammasso, e poi separate? Potrebbe essere molto interessante....

  4. Citazione Originariamente Scritto da Red Hanuman Visualizza Messaggio
    Caro Enzo, come sempre un'ottimo articolo ed uno stupendo resoconto della tua esperienza personale.
    Mi chiedevo: non si potrebbe utilizzare il tuo metodo, con le opportune correzioni, per riuscire a raggruppare le stelle nate nello stesso ammasso, e poi separate? Potrebbe essere molto interessante....
    in effetti, mi è stato chiesto il programma tempo fa per raggruppare gli ammassi galattici... Per le stelle di un ammasso direi che il BG è insignificante (di solito). Molto meglio studiare il moto proprio... si fa prima (se si riesce a misurarlo).

  5. Citazione Originariamente Scritto da Red Hanuman Visualizza Messaggio
    Caro Enzo, come sempre un'ottimo articolo ed uno stupendo resoconto della tua esperienza personale.
    Mi chiedevo: non si potrebbe utilizzare il tuo metodo, con le opportune correzioni, per riuscire a raggruppare le stelle nate nello stesso ammasso, e poi separate? Potrebbe essere molto interessante....
    ops... forse intendevi proprio quello: misurare le velocità relative (vere questa volta) e vedere se si combinano con quella media dell'ammasso. Oppure, in zone senza ammassi visibili a occhio nudo, calcolare i moti propri e poi legare quelli più simili tra loro... magari nelle zone più cariche di stelle... Chissà, forse l'hanno anche fatto...