Abbiamo visto nella prima parte che l’espediente di Planck consiste nell’immaginare che l’energia del corpo nero venga trasmessa tramite pacchetti discreti, chiamati “quanti”. Questo scongiura la “catastrofe ultravioletta” perché l’energia non è più un fluire continuo, e quindi man mano aumentano le frequenze non basta avere un’energia maggiore, ma bisogna anche avere un numero maggiore di pacchetti da distribuire.
Di fatto, anche se l’energia del singolo pacchetto aumenta, diminuisce il numero di pacchetti disponibili, e alla fine per energie molto alte non esistono pacchetti. E’ un po’ come tirar su l’acqua da un pozzo: se usiamo una pompa, praticamente non c’è limite all’acqua che possiamo portar via. Se però usiamo dei secchielli, finché sono piccoli possiamo tirarne su quanti ne vogliamo ma con pochissima acqua; mentre man mano che la dimensione del secchio aumenta, aumenta la quantità d’acqua prelevata, ma si fa sempre più fatica e si tirano su sempre meno secchi. Al limite, poi, se il secchio ha una luce più grande di quella del pozzo, non lo si può calare.
Come dicevo questo era considerato un mero espediente. Ci doveva pur essere un’altra spiegazione, più accettabile. E invece…..
Una scoperta e un mistero
Come spesso accade, tutto cominciò per caso e partendo da tutt’altre considerazioni.
Abbiamo già detto che Maxwell, nel 1865, aveva unificato la forza elettrica e quella magnetica in un unico fenomeno, l’elettromagnetismo. Come corollario, la luce doveva essere costituita da onde elettromagnetiche. Ma un conto è teorizzarlo, e un altro dimostrarlo. Molti scienziati si lanciarono nell’impresa, ma il più brillante fu H. Hertz, che realizzò l’esperimento schematizzato qui sotto, e di cui potete avere migliori dettagli QUI.
L’esperimento consisteva nel far scoccare una scintilla tra due sfere di ottone, la scintilla avrebbe dovuto produrre delle onde elettromagnetiche che, per risonanza, avrebbero provocato un’altra scintilla tra due sfere simili alle prime e poste ad una certa distanza. L’esperimento ebbe successo, ma per vedere meglio la scintilla tra le due sfere “riceventi” Hertz schermò il rilevatore dalla luce. E qui, accadde una cosa inaspettata: invece di veder meglio lo scoccare della scintilla, essa appariva più flebile. Incuriosito, provò ad effettuare una serie di esperimenti con materiali schermanti diversi, ed il caso volle che utilizzasse schermi di vetro e di quarzo.
Il vetro e il quarzo sono di fatto lo stesso materiale ossia biossido di silicio, la differenza la fa la forma dei cristalli e la presenza nel vetro di soda, che assorbe i raggi ultravioletti. Ebbene se si schermava con il vetro il ricevitore, la scintilla era flebile, mentre non lo era se lo schermo era di quarzo. Questo mise sulla buona strada Hertz: prese un prisma e provò ad illuminare a diverse lunghezze d’onda le sfere riceventi. E, quando illuminò le sfere con raggi che stavano “oltre il violetto”, di colpo l’intensità delle scintille aumentò. Il fatto che la scintilla venisse emessa con maggiore o minore intensità a seconda della luce incidente sulle sfere di ottone dimostrava che gli elettroni che costituivano la scintilla venivano emessi in relazione al tipo di luce che colpiva le sfere. Anche se evidente, comunque, questo imprevisto rimaneva senza spiegazione.
Successivi esperimenti dimostrarono che gli elettroni potevano essere emessi spontaneamente dai metalli a seconda della luce che li colpiva, ma sempre secondo modalità che rimanevano inspiegabili con le conoscenze del tempo.
Nel 1902 gli approfonditi esperimenti condotti da Von Lenard lo portarono alle seguenti conclusioni: 1) l’energia degli elettroni emessi è indipendente dall’intensità della luce incidente; 2) il numero di elettroni emessi aumenta all’aumentare dell’intensità della luce; 3) l’energia di un elettrone aumenta al diminuire della lunghezza d’onda della luce utilizzata.
Ora, per le conoscenze del tempo la luce era semplicemente un’onda (anche se elettromagnetica), e come tutte le onde doveva comportarsi. Quindi, l’energia che trasportava l’onda dipendeva solo ed esclusivamente dalla sua ampiezza, ovverosia dalla sua intensità: a luce più intensa doveva corrispondere una maggiore energia dell’elettrone; inoltre dovevano essere emessi più elettroni visto che l’energia si distribuisce su tutta la superficie illuminata, e per dare sufficiente energia all’elettrone doveva accumularsi su una superficie pari ad un singolo atomo.
Il fatto poi che ci fosse una frequenza di soglia era davvero sconcertante. Per capire, facciamo un esempio e supponiamo di avere una barca ancorata ad un molo: se arriva una tempesta con onde altissime, è facile che la barca venga scaraventata oltre al molo, mentre una serie di onde rapidissime ma poco intense non riuscirà mai a fare ciò. Ma qui accade l’esatto contrario: è come se le onde molto intense non la smuovessero, mentre piccole ma frequentissime onde la sbattessero di qua e di là. Davvero un mistero….
Facciamo luce sui fotoni
Il mistero continuava ad essere fitto quando nel 1905 Einstein pubblicò un articolo che, di colpo, gettò una luce definitiva sul buio.
Einstein si stava occupando dell’emissione di luce del corpo nero, e la esaminò ex – novo, con considerazioni del tutto originali. Dapprima, osservò che le equazioni di Maxwell presupponevano una distribuzione continua dell’energia, la quale viene diffusa proprio come in un’onda; mentre la distribuzione dell’energia tramite particelle deve per forza essere discreta, visto che le particelle non sono divisibili all’infinito.
Però, di fatto le osservazioni condotte sulla luce erano state effettuate su valori medi nel tempo, e potevano non essere in contrasto con una distribuzione a pacchetti di energia. In questo caso, l’energia non si distribuiva più in modo diffuso, ma rimaneva localizzata in un numero finito di punti.
In secondo luogo, osservò che lo spettro osservato del corpo nero sembrava essere suddiviso in due parti distinte: una (a basse frequenze) era riconducibile pienamente alle leggi di Maxwell, mentre l’altra (ad alte frequenze) no.
Ora, Einstein tra il 1902 e il 1904 aveva indagato a fondo la termodinamica (la branca della scienza che studia le trasformazioni del calore in lavoro e viceversa in un sistema chiuso) e la meccanica statistica (che fornisce gli strumenti matematici per studiare le trasformazioni termodinamiche in un sistema costituito da un grosso numero di particelle), e volle applicarne i principi su una luce di un unico colore a intensità bassa.
Bene, sorprendentemente i risultati corrispondevano perfettamente a quanto osservato, e la distribuzione dell’energia corrispondeva esattamente alla formula di Planck E=hν. Questo poteva significare solo una cosa: dal punto di vista termodinamico, una radiazione si comporta come un gas ideale, costituito da piccole particelle indipendenti tra loro. A queste particelle venne dato il nome di FOTONI.
Questa ipotesi poteva spiegare l’effetto fotoelettrico? Sì.
Basta pensare che l’elettrone è legato al suo atomo e si deve compiere un lavoro per separarsene. Se l’energia è fornita tramite onde, l’energia luminosa si deve accumulare per un tot di tempo su una superficie per causare l’emissione di un elettrone. Ma se l’energia viene trasmessa tramite fotoni, invece, è sufficiente che il fotone colpisca l’elettrone con un’energia almeno adeguata a compiere il lavoro di separazione. L’eventuale energia in sovrappiù si traduce in energia cinetica dell’elettrone.
Da questa considerazione e da quelle precedenti si può ricavare una formula che, una volta sottratta l’energia di estrazione (il lavoro necessario per separare l’elettrone da suo atomo), mette in relazione diretta l’energia del fotone all’energia cinetica dell’elettrone.
Si può cioè ricavare un grafico che dipende dal materiale utilizzato solo per l’energia di soglia, e che mette in relazione l’energia cinetica dell’elettrone con la frequenza della luce incidente mediante una retta con una certa pendenza.
Ovviamente la teoria venne immediatamente messa alla prova, ma fu solo nel 1916 che Millikan, tramite i suoi esperimenti, riuscì a dimostrarne la validità. Con sua massima sorpresa e quasi con riluttanza….
Questa prova sperimentale valse ad Einstein il premio Nobel per la fisica nel 1921. Era ormai evidente che c’era qualcosa di veramente strano nell’infinitamente piccolo, che avrebbe portato alla nascita di una nuova e sconcertante branca della scienza: la Meccanica Quantistica!
grande articolo Red, fluido e intuitivo.
complimenti davvero!
"Non dire a Dio come deve giocare".cit
Ogni volta che leggo qualcosa riguardante quel periodo tra la fine dell'800 e lla prima parte del '900 mi viene da pensare a che picco raggiunse la mente umanacon tutti quei Geni "contemporanei".
Einstein, Bohr, Heisenberg, Plank, Fermi, Schrodinger ecc..tipo il rinascimento per l'arte.
Sarebbe bello leggere anche qualche articolo sulle loro discussioni/corrispondenze.
Comunque bell'articolo Red.
grazie!
Bellissimo Red!! ben fatto e chiarissimo! brillante l'esperimento di Hertz, la meccanica quantistica è nata un mattoncino per volta con il contributo di decine di geni!
Peccato che Hertz si sia messo ad affittare automobili..
Articolo veramente corposo ma fatto molto molto bene!
Mi servira' qualche giorno per digerirlo!
Senti, credo che anticipi i prossimi articoli ma ti volevo fare una domanda, ma le grandezze di planck alla fine cosa sono?
Sono semplici unita' di misura o corrispondono ad entita materiali (come indicato nell'articolo che ci ha fatto capire che essa ci ha permesso di teorizzare la quantizzazione dell'energia)?
In sintesi sono nel pallone con enwrgia, lunghezza, massa e tempo di planck! :(
Ma ciò è estremamente arbitrario. Quindi, per avere delle unità di misura veramente "fondamentali" dobbiamo utilizzare le costanti fisiche universali e porle uguali a 1 (cioè usarle come unità), e ricalcolare le altre unità tramite queste.
Le costanti fisiche fondamentali sono: c (velocità della luce nel vuoto), G (costante gravitazionale), ħ (la "costante di Planck ridotta", cioè h divisa per 2π, che ha un'uso maggiore della sola h), ke (costante della forza di Coulomb) e kB (costante di Boltzmann).
Se utilizziamo queste costanti come unità di base, possiamo ricavare delle altre unità base, che sono la lunghezza, la massa, il tempo, la temperatura e la carica di Planck; e da queste ultime tutte le altre derivabili.
Il significato fisico delle unità di Planck è molto semplice: quando queste ultime sono unitarie, valgono sia gli effetti della meccanica quantistica che quelli della relatività generale. In questo caso, però, bisognerebbe avere una teoria della gravità quantistica efficace. Di fatto, rendono semplice l'utilizzo delle formule delle varie leggi fisiche, e pongono il limite alle nostre speculazioni con le attuali conoscenze......
Hai fatto una spiegazione chiarissima!
Quindi, per vedere se ho capito bene, mi confermi che non sono entità che pongono una linea di confine fisico nel nostro universo, in sintesi non sono la dimostrazione di uno spazio tempo quantizzato no?