Se dipendesse dal Big bang, l’universo sarebbe praticamente composto solamente da Idrogeno ed Elio e noi non potremmo esistere. Niente carbonio, ossigeno, calcio, ferro e nessuna traccia neppure di tutti gli altri elementi chimici indispensabili alla nostra vita. Per non parlare di quelli che costituiscono il pianeta sul quale gironzoliamo per il cosmo. Di tutti questi elementi dobbiamo ringraziare anzitutto le fucine stellari e le reazioni di fusione atomica che li sintetizzarono miliardi di anni prima che noi potessimo comparire sulla scena del cosmo.
Ma l’attività frenetica di questi astri costruttori di elementi chimici sarebbe stata completamente vana se, una volta giunti al termine della loro evoluzione, non fosero stati dilaniati da quelle immani esplosioni che gli astronomi chiamano supernovae. Sono infatti le supernovae che, spruzzando tutt’intorno gli elementi chimici sintetizzati nel corso della vita di una stella, rendono disponibile il materiale necessario non solo a costruire altre stelle, ma anche pianeti ed esseri viventi.
Facendo una stima del numero di supernovae e della quantità di materiale espulso nello spazio, i nostri conti – per quanto approssimativi e problematici – dovrebbero quadrare con l’effettiva abbondanza degli elementi chimici cosmici. E’ un po’ quanto hanno provato a compiere Jelle de Plaa (ricercatore dello SRON, l’Istituto olandese per le ricerche spaziali) e il suo team utilizzando XMM-Newton, l’osservatorio spaziale dell’ESA per la radiazione X. Nel loro mirino 22 ammassi di galassie nei quali hanno cercato le tracce degli elementi lasciati da circa 100 miliardi di supernovae, valutando accuratamente le abbondanze di ossigeno, neon, silicio, zolfo, argo, calcio, ferro e nickel.
Ma qualcosa non quadra. L’abbondanza del calcio misurata grazie a XMM-Newton è circa una volta e mezzo più elevata di quella prevista dai modelli teorici. Una spiegazione potrebbe essere che le nostre valutazioni sulla frequenza delle differenti tipologie di supernovae possa essere sbagliata. Le supernovae di tipo I, in particolare, potrebbero essere più frequenti, ben più frequenti del 15% indicato dalle stime basate su quanto avviene nella nostra galassia.
“Noi abbiamo misurato gli effetti di un incredibile numero di supernovae – ci tiene a sottolineare de Plaa – e dunque i nostri risultati dovrebbero offrire una media più accurata di quella calcolata finora.”
Ora sta alla comunità degli astrofisici che si occupano di studiare i modelli teorici delle supernovae trarre le dovute conseguenze.
Fonte: http://www.coelum.com